L'anima ferita del mondo
#FOTOGIORNALISMO
In occasione della quarta edizione del Vinci Photo Festival sono in programma ben sette workshop e un’uscita fotografica a cui siete tutti invitati.
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Sabato 18 marzo Matthias Canapini sui conflitti medio orientali;
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Domenica 19 marzo Francesco Ruggeri sui reportages di viaggio;
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Sabato 25 marzo Maria Novella De Luca su Sahara Occidentale;
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Domenica 26 marzo Vincenzo Tristaino sulla fotografia di architettura;
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Domenica 16 aprile uscita fotografica con il Foto Club Vinci.
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I workshop avranno una durata di tre ore circa.
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Sarà possibile seguire un solo o più workshop oppure fare un abbonamento a tutte le sessioni.
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Per partecipare occorre registrarsi al sito
Giornalista e ricercatore freelance, scrive per quotidiani e riviste tra cui L’Espresso, il manifesto, il Venerdì di Repubblica, gli Asini, Ispi. Direttore dell’associazione di giornalisti indipendenti Lettera22, insegna alla Scuola di giornalismo della Fondazione Basso e alla SIOI. È il curatore del Salone dell’editoria sociale di Roma e l’ideatore di MIP, Il mondo in periferia, il Festival di giornalismo di esteri e di comunità, la cui prima edizione si è tenuta nel maggio-giugno 2022.
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Si occupa di globalizzazione, cultura, politica internazionale, islamismo armato e Afghanistan, Paese di cui si occupa con regolarità dal 2008 e a cui ha dedicato anche ricerche accademiche. Curatore de La sinistra che verrà. Le parole chiave per cambiare (con G. Marcon, minimumfax 2018), per le edizioni dell’Asino ha pubblicato Arcipelago jihad. Lo stato islamico e il ritorno di al-Qaeda (2016) e due libri-intervista: Zygmunt Bauman. Modernità e globalizzazione (2009) e Per un’altra globalizzazione (2010).
Il Workshop Fotografico tenuto dal giornalista e ricercatore freelance Giuliano Battiston è dedicato all’Afghanistan ed è articolato in 3 sessioni. La prima prevede un reportage/lezione per immagini dal titolo “Dentro l'Emirato dei Talebani”, un’immersione nel Paese retto dagli islamisti radicali, per comprendere cosa sia cambiato dall’agosto 2021 a oggi, con la caduta del vecchio regime. La seconda è una riflessione, a partire dalle foto, sugli stereotipi, i pregiudizi e i condizionamenti attraverso i quali, generalmente, si guarda all'Afghanistan, oltre che sui mezzi con cui evitarli. La terza sessione prevede invece una discussione aperta con i partecipanti e un’attenzione particolare alla “cassetta degli attrezzi”: informazioni pratiche per lavorare in Afghanistan.
Matthias Canapini (scrittore, giornalista, fotografo) è nato nel 1992 a Fano. Dal 2012 viaggia per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica, documentando aree di conflitto, il sisma in centro Italia, il rugby come strumento inclusivo. L'ultimo libro pubblicato, Il gioco dell'oca, racconta le principali rotte dei migranti che dall'Africa SubSahariana al Medio Oriente si snodano fino in Europa. Ha pubblicato anche Verso Est, Eurasia Express, Terra e dissenso, E' così la vita, Confini, Dar (Prospero Editore), Il passo dell'acero rosso e L'ovale storto (Aras Edizioni). Scrive per Redattore Sociale, Unimondo, SuperAbile.
Il gioco dell'oca
Da Lugansk a Erbil, scatti di frontiera.
Volti e storie dalle retrovie di conflitti armati. Parole e fotografie raccolte "a passo lento" nei campi sfollati della Siria o nelle risaie dimenticate del Vietnam, per raccontare gli effetti collaterali di guerre vicine nello spazio e lontane nel tempo. Un lancio di dadi per bruciare la frontiera e muoversi, come testimoni della storia, lungo margini e confini.
Nato a Empoli, il 27 Gennaio 1982
Dal 2004 ho un'azienda grafica pubblicitaria, lavorando con prestigiose aziende. A 30 anni si aprono nuovi sbocchi, nuove prospettive, ma soprattutto la voglia di viaggiare e scoprire il mondo, con un sogno nel cassetto... quello per la fotografia, tramandato da mio padre, da sempre appassionato.
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La curiosità e la voglia di mettermi in gioco continuamente con nuove sfide mi hanno permesso nel 2014 di essere il Ceo e Fouder del Foto Club Vinci, circolo fotografico con lo scopo di propagandare e insegnare la fotografia nel territorio dell'Empolese Valdelsa e non solo.​
Con il Foto Club Vinci organizzo Corsi, Workshop e Concorsi Fotografici. E dal 2015 Workshop Fotografici in Italia e all'Estero.​
Oggi il Club, nato con 5 soci, conta 120 soci attivi.
Credo di essere un fotografo coraggioso, animato dalla costante volontà di creare immagini cariche di suggestioni in ogni situazione.
La mia vita e il mio iter professionale, sono costellate di esperienze di varia natura che hanno forgiato il mio carattere eclettico e il mio personale stile fotografico creativo.
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I viaggi e le foto di Reportage sono il mio punto forte. Cerco sempre nuovi spunti e nuove idee sulla foto di strada, e il ritratto ambientato. Nei miei viaggi vado sempre alla ricerca di palcoscenici sempre diversi da legarli a una storia e a un progetto. Il tutto parte da un'emozione trainante, facendola diventare un racconto ad immagini, suscitando l'emozione che ho provato quando ho scattato la foto, considerando il luogo, la luce, i riflessi e quello che provo in quel momento..
Un Workshop Fotografico full immersion di 3 ore per imparare le tecniche e la composizione nel Reportage di Viaggio, partendo dalla creazione dell’Idea al Portfolio.
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Se vuoi utilizzare la fotografia come linguaggio espressivo per raccontare la tua visione del mondo nei tuoi viaggi, le tue emozioni, o le storie che ritieni interessanti, è necessario che tu sappia legare tanti diversi scatti tra loro secondo un filo narrativo coerente che dia vita ad un racconto fotografico dal forte impatto visivo.
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Questo corso ti offre un’opportunità unica per realizzare in maniera pratica un tuo reportage, ed anche una visione completa sulle fasi di realizzazione di un progetto fotografico:
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Scelta del Tema e sviluppo della Storia, Analisi dello scatto e della sequenza narrativa Editing
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dalla scelta del tema alla scrittura della sinossi
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dallo sviluppo della storia alla scelta del linguaggio fotografico
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dall’analisi dello scatto a quello della sequenza narrativa
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dall’editing alla costruzione del racconto visivo
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dalla conoscenza degli aspetti legali relativi alla fase di scatto e pubblicazione alla presentazione del proprio lavoro
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conoscenza degli aspetti legali relativi alla fase di scatto e pubblicazione alla presentazione del proprio lavoro
Ha collaborato come fotoreporter con molte agenzie di stampa come l’Ansa, AGF, Agi, Dire, pubblicando sulle maggiori testate nazionali, come Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, Il Messaggero, Oggi, Left e Internazionale. Oggi lavora come fotografa free lance, collabora con alcune Ong, per la realizzazione di foto e video documentari. Tra gli ultimi lavori, la missione Search and Rescue Moas Cri con Croce Rossa a largo della Libia e la missione nel Kurdistan iracheno nella città di Shengal e il ritorno nella città di Kobane nel Kurdistan siriano.
L’altopiano dell’Hammada è una delle zone più inospitali del deserto del Sahara, situato a sud ovest dell’Algeria, vicino all’oasi di Tindouf.
Qui si trovano i campi profughi saharawi, dove la popolazione profuga vive, costretta a fuggire dal Sahara Occidentale a seguito dell’occupazione marocchina del 1975. Un muro di sabbia di 2700 chilometri costruito dal Marocco a partire dal 1980, si innalza come una ferita nel nulla del deserto che si perde a vista d'occhio, dividendo gli abitanti dei campi profughi in terra algerina dal Sahara Occidentale.
L'area che circonda il cosiddetto "muro della vergogna" è una vera e propria area militare circoscritta da bunker, fossati, filo spinato, sorvegliata da oltre 100mila militari e soprattutto disseminata da milioni di mine. Le mine rendono il territorio inospitale potenzialmente per sempre: con le piogge gli ordigni tendono infatti a spostarsi sotto la sabbia, rendendo l’operazione di bonifica estremamente complicata. Per bonificare l’area, nel 2013 l’autorità nazionale saharawi ha fondato, con il sostegno delle Nazioni Unite, l’ufficio Saharawi di coordinamento dell’azione contro le mine (Smaco).
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Oltre a questo ufficio nel 2019 è nata anche l’associazione Smawt, Saharawi Mine Action Team, composta da giovani donne impegnate nelle attività di sminamento dell’area che circonda il muro.
Di questo racconta il reportage “Mina. Donne saharawi, il coraggio della libertà” che sarà presentato al workshop di Vinci Foto Festival.
Ho iniziato a fotografare con reflex analogica da ragazzo, spinto dalla voglia di voler sperimentare altre forme di espressione che potessero arricchire la mia formazione artistica.
Successivamente, impegni, prima di studio e poi lavorativi, mi hanno distratto da una passione divenuta, soltanto negli ultimi anni, importante e assidua grazie anche alla frequentazione del Fotoclub (Fotoclub Vinci) e alle tante attività che vi si svolgono.
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Architetto di professione, sono da sempre attento alle sperimentazioni ed alle possibilità espressive del linguaggio fotografico e trovo nella fotografia di Architettura il genere che più di ogni altro mi consente di utilizzare il mezzo fotografico, non come strumento descrittivo, ma creativo.
Perché proprio come il processo creativo del “fare architettura” nelle accezioni di ideazione, progettazione e realizzazione dell’opera, l’immagine fotografica di essa viene creata per suggestionare, far vibrare la luce, emozionare.
La fotografia come “visione” dello spazio urbano di cui l’Architettura ne costituisce l’“anima”.
È questa la motivazione che mi spinge ad usare la fotografia come esplicitazione di un immaginario fatto di forme, geometrie, spazi metafisici. Un immaginario che dovrà suscitare attraverso il mezzo fotografico, un coinvolgimento emotivo dello spettatore nella lettura sia dell’immagine che del linguaggio e significato contenuti nell’opera di architettura stessa.
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Come un libro o come un quadro, essa può essere letta perché nasce da una scrittura, il progetto, opera intellettuale dell’architetto, ma allo stesso modo raccontata attraverso le immagini e la personale visione del fotografo e del suo sguardo consapevole dello stile e della storia dell’opera architettonica.
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“Raccontare” l’Architettura significa far conoscere gli aspetti identitari, le tradizioni, le tecniche costruttive antiche e moderne, la vita che in questi “contenitori” si svolge, gli aspetti stilistici diversi, a seconda delle aree geografiche.
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In una parola significa raccontare la bellezza che l’ingegno umano è riuscito nei secoli e riesce ancora oggi a creare per rendere migliore la nostra esistenza lasciando segni importanti del nostro passaggio.
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Gli stessi segni, che proprio per essere di grande significato identitario, rischiano in molti casi di essere per sempre cancellati per effetto di distruzioni causate da conflitti e guerre provocate dalla natura di prevaricazione dell’uomo, e per questo soltanto attraverso la conoscenza, quella per immagini, e la accresciuta consapevolezza dell’enorme rischio per l’umanità intera di un distruttivo coinvolgimento totale, potranno essere preservati.
In questo contesto e nella società delle interconnessioni, dell’informazione in tempo reale, dei social, delle tecnologie sempre più evolute, la fotografia svolge il suo ruolo predominante e fondamentale, perché oltre a “mostrare” il nostro mondo, rende visibile l’invisibile riuscendo con la sua forza prorompente e la sua carica emotiva a far vibrare le corde dell’ anima.
Nasce a Pisa, (Italia) nel 1989.
Nel 2014 si laurea in Scienze Sociali presso l'Università di Pisa.
Giornalista e fotoreporter freelance ha attraversato cinquanta paesi fotografando le loro realtà sociali e politiche.
Appassionato di Medio Oriente e Asia Centrale, ha fotografato più volte le realtà dei conflitti in Libano e Kurdistan. E interessato principalmente alle storie di rifugiati, per lo più provenienti da aree di conflitto e post-conflitto e dagli aspetti culturali.
Oggi vive a Livorno. I suoi lavori sono stati pubblicati sul The Guardian, Der Spiegel, Vice Magazine, El Pais, Stern, L'Express, Humanite Dimanche, L'Espresso, Internazionale, Domani, Il Manifesto, Corriere del Ticino, Nzz, Die Zeit, Taz, National Geographic, Venerdì Repubblica, D Repubblica, Il Fatto Quotidiano, The New Internationalist, Al Jazeera, Freitag.
Il popolo dimenticato del Kurdistan.
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Il territorio del Kurdistan è suddiviso tra alcune parti dell'Iran, dell'Iraq, della Turchia e della Siria odierne. I curdi hanno sempre lottato per l'autodeterminazione delle minoranze oppresse e per ottenere una soluzione che ponesse fine alla loro oppressione, ma sono stati fortemente repressi da ogni Stato in cui vivono. L'unico luogo in cui i curdi hanno ottenuto una completa autodeterminazione storica attraverso un processo rivoluzionario - che dura da più di 10 anni ed è ancora in corso - è la Siria del Nord e dell’Est/ Rojava /AANES - Amministrazione Autonoma del Nord e dell’Est della Syria.
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L'autogestione è stata dichiarata da una parte del movimento di resistenza curdo, insieme a porzioni di popolazioni arabe, turcomanne, circasse, ezide e siriache, che portano avanti un'idea di organizzazione della società basata su alcune radici di democrazia diretta, sulla libera coesistenza dei diversi gruppi religiosi ed etnici e sull'importanza fondamentale per i diritti delle donne.
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Analizzare, anche attraverso le foto, la situazione dei curdi e delle altre minoranze che vivono nei territori della mezzaluna fertile significa cercare di mostrare quanto sia difficile la loro situazione, ricordando, nelle difficoltà di documentare questi processi storici, che esiste una popolazione che vive grazie a stretti legami di solidarietà. Ciò significa anche sottolineare che sopravvive un'importante fortezza di speranza all'interno di un terrificante teatro di guerra perpetua.
Giornalista videomaker, romana dal 1989.
Si laurea in Relazioni Internazionali presso l’Università La Sapienza di Roma, prende un master in Geopolitica e nel mentre si addentra all’interno di alcune redazioni.
Dopo una prima esperienza in televisione con l’emittente ClassCNBC, inizia a giocare con le immagini video e foto.
Collabora per diverso tempo con Repubblica.it, coprendo le notizie di cronaca, sociale e di politica nazionale.
L’indole del viaggiare e del voler scoprire gli esteri la portano a scegliere la strada dell’umanitario, attualmente lavora con la ong INTERSOS come content producer dal campo per documentare con foto, video e articoli le varie crisi
umanitarie.
Ha viaggiato in Ucraina, Iraq, Moldavia, Giordania, Niger, Libano, Grecia (isola di Lesbo), Afghanistan e altre missioni legate all'intervento umanitario.
Ha pubblicato reportage e foto su Il Fatto Quotidiano, Il Corriere della Sera, TPI e il quotidiano Domani.
TITOLO: LA SABBIA NON LA PUOI TRATTENERE
Nel tentativo di trattenere un pugno di sabbia tra le mani, questa si ribella e prende spazio, si dirama e lascia che ogni suo grumo si allontani. Cade come fosse acqua che scorre, non la puoi contenere.
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Lo stesso accade nella testa delle persone, anche lì c'è sabbia in movimento. La salute mentale di chi migra, fugge, attende da tempo in un campo o viene respinto da un confine, è oggetto costante di dure prove di resistenza.
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Quando pensiamo ai rifugiati, agli sfollati interni, ai migranti ancora in transito, ai richiedenti asilo, agli apolidi o ai profughi di guerra, ci domandiamo quasi esclusivamente che tipo di bisogno primario possa essere utile alla loro sopravvivenza fisica.
Cibo, vestiti, ripari, medicine, beni di prima necessità. Eppure, la domanda "come stai?", non è quasi mai pensata nella sua totalità che comprende anche il benessere mentale. I migranti della rotta balcanica bloccati ai confini, quelli in costante attesa alle porte dell'Europa come le isole di Lesbo e Lampedusa, chi tenta più e più volte la traversata dall'Africa subsahariana o è in uno stato di perenne attesa in un campo informale del Medio Oriente, come i siriani in Libano e in Giordania.
Per tutte queste persone, l'essere vulnerabili mentalmente è un rischio al quale si è costantemente esposti. Lo stress post traumatico, le condizioni di degrado, il non avere risposte sul proprio futuro, il sentirsi esclusi o, ancor peggio, invisibili, sono i semi di potenziali disturbi psicologici.
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Ci spaventa la miseria di quei luoghi e di quella gente, provando a porvi rimedio con la materialità o la burocrazia, senza, però, cercare davvero ad osservare la complessità del tutto. Solo a quel punto la domanda "come stai?" ha motivo di esserci.